Intervista a Luca Bergamo
di Valentina Valentini

Ciascuno ha il diritto di partecipare liberamente alla vita culturale della propria comunità, di godere dell’arte e beneficiare dei progressi della scienza

Valentina Valentini: Il rapporto centro/periferie è stata una questione fondamentale della politica culturale degli anni Settanta, gli anni della mia formazione culturale e politica… oggi sembra che questa dicotomia sia stata dimenticata, come se fosse già risolta. Come si è ridefinita questa polarità?

Luca Bergamo: in generale esistono pochi centri e nuove periferie. Se guardi la struttura fisica della città di Roma, esiste un centro che, per la densità e la concentrazione di patrimonio culturale e fisico, è prevalentemente all’interno delle mura aureliane. Dal punto di vista della vitalità e della produzione culturale ho molte riserve intorno al fatto che il centro, il luogo in cui abitano le élites socio-economiche, sia culturalmente più vitale, produttivo, stimolante rispetto al resto della città. Anzi, probabilmente anche per effetto di certi spostamenti nella composizione demografica delle aree metropolitane, si verificano insorgenze di produzioni culturali fuori dal centro. Certamente si riscontra un rovesciamento della creatività rispetto alle cosiddette élites: penso alla grafic novel, alla musica, anche ad alcune esperienze di nuova drammaturgia, alla contaminazione di generi, alla riscoperta del rapporto con lo spazio. Queste pratiche artistiche sono fortemente integrate all’interno di comunità che a Roma, in modo assolutamente prevalente, sono fuori dal centro. È innegabile però che esista un elemento di privazione o di riduzione delle condizioni materiali di godimento del diritto a partecipare liberamente alla vita culturale, cui ci richiama l’articolo 27 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, che effettivamente trova attuazione in modo diverso a seconda dell’articolazione fisica e urbana. Storicamente c’è una concentrazione delle istituzioni culturali nel centro della città e, ancor più in una fase di contrazione dell’azione pubblica, com’è stata fino a poco tempo fa. Forse questa vicenda dell’epidemia globale porterà a riconsiderare il rapporto tra dimensione pubblica e dimensione privata, in ogni caso i soggetti classici della produzione e distribuzione culturale e le istituzioni sono concentrate in una certa parte della città che è estesa su 1200 kmq contro i 102 km di Parigi. Questo fatto in sé genera delle differenze, ed è anche uno dei motivi per cui le politiche culturali che abbiamo provato a svolgere nel corso di questi anni, all’interno di alcuni limiti concreti, sono orientate a riconoscere le misure che consentono l’esercizio del diritto di partecipare alla vita culturale a chiunque. Fare questo richiede modifiche sostanziali al funzionamento delle Istituzioni culturali e ci porta a immaginare un sistema diverso da quello che abbiamo trovato.

 

V.V.: Le realtà culturali nate in periferia, come il MAAM, Museo dell’Altro e dell’Altrove, le scuole di musica e le orchestre popolari nate tra la Prenestina e la Casilina, i piccoli spazi teatrali, Il Centro culturale Municipale Giorgio Morandi, la Palestra popolare del Quarticciolo, la varietà di realtà culturali sommerse nate in periferia, non hanno nessun rapporto con istituzioni pubbliche che programmano l’offerta culturale a Roma. La frattura è profonda.

L.B.: Questa cosa da una parte te la contesto perché non considera non solo l’esperienza di trasformazione del Macro che è stata fatta portando l’esperienza del MAAM dentro l’esperienza istituzionale, ma anche semplicemente esperienze come quella, per citarne una, degli Stalker, la musica trap, il lavoro del Palazzo delle Esposizioni. Non è vero che non ci sia ascolto, ora comincia a emergere anche la programmazione del Teatro India e a tratti anche del Teatro Argentina. La funzione che abbiamo cercato di costruire tra i “Teatri in Comune” e il sistema del teatro civico nazionale, che è il Teatro di Roma, è la costruzione di un sistema di collegamento fra esperienze culturali: il sistema è molto più permeabile adesso. Aggiungerei un altro elemento: c’è una parte importante che collega le istituzioni culturali con la città che è il sistema delle Biblioteche di Roma che in molte occasioni è diventato uno strumento di promozione. Che esista una distanza tra la nuova produzione culturale e l’offerta culturale delle Istituzioni è un dato di fatto. Ma è una lunga storia. Le organizzazioni più strutturate sono più lente a raccogliere le innovazioni, almeno in Italia. Direi che c’è anche un passaggio importante di cui tener conto: penso per esempio al settore dell’arte contemporanea, fortemente influenzato, a vari livelli, dal mercato dell’arte che lavora sul collezionismo, sull’aumento del valore commerciale delle opere e che ha avuto una forte penetrazione nel sistema pubblico. Dall’altra parte questo mondo dell’arte contemporanea in cui l’elemento performativo è crescente, che diventa sempre più contaminato, crea esperienze artistiche fortemente partecipative. Penso a Marinella Senatore, un nome noto. Mi riferisco anche alle tantissime esperienze in corso, ai meccanismi che abbiamo messo in piedi con l’Estate Romana che hanno fatto emergere un’offerta culturale che non esisteva prima nel sistema istituzionale, perché i criteri di valutazione dei progetti eleggibili non riguardano solo lo svago e il tempo libero. Avendo impostato in modo del tutto diverso i criteri, cercando la connessione con le comunità territoriali di riferimento, sono venuti fuori, per esempio, una quantità infinita di walk about, espressioni di forme artistiche diverse. In breve, ripeto, ho qualche riserva sull’assenza di connessioni.
Per altro, curiosamente, ci sono connessioni molto forti su alcuni mercati, se pensi all’esplosione dei trapper romani, da Achille Lauro in là, ti ritrovi a Sanremo, quindi c’è anche una funzione – che non amo particolarmente – ma che comunque esiste, di una commercializzazione della creatività emergente che non nasce all’interno delle nicchie.
A me pare che ci sia un vuoto gigantesco, viceversa, di funzione degli intellettuali che tipicamente facevano parte dell’élite e ora invece appartengono all’alter. Dopo Pasolini ci sono pochi intellettuali che siano attenti alle trasformazioni e alle dinamiche e che siano capaci di ragionarci in chiave critica o non critica che sia. Il sistema istituzionale potrebbe essere capace di accogliere e integrare parte di questa creatività emergente, le esperienze di organizzazione sul territorio. Penso al lavoro che si sta facendo intorno al lago dell’Ex SNIA: il gruppo di persone, la comunità locale, l’urbanistica, la cultura si è coinvolta intorno all’interpretazione di quel luogo, e lo sfruttamento immobiliare è stato arginato, anche se ritorna ad affacciarsi. Il progetto comune è quello di costruire uno spazio pubblico in cui di nuovo la cultura, il racconto della storia, il rapporto con la comunità locale e i bambini è molto forte.

 

V.V.: Il problema l’hai identificato quando dici che a queste esperienze manca un tessuto di riferimento identificabile che costituisca un tracciato anche per l’istituzione pubblica. Bisogna individuare strumenti e processi di relazione fra istituzioni, intellettuali, artisti. Negli anni Settanta c’era un tessuto ideologico, politico, culturale che faceva di queste alleanze un sistema che era sia operativo che intellettuale e politico.

L.B.: Siamo in un altro mondo dove non ci sono più identità collettive, ma commodification (preferisco la parola inglese rispetto a quella italiana di mercificazione). Comunque osservo che il dibattito pubblico è in generale scarsamente capace di fare riflessioni che non siano di tipo contingente. Qui stiamo tentando ragionamenti che riguardano l’incidenza nel modello di sviluppo nella sfera pubblica e nella sfera privata. Da questo punto di vista insisto che questa fase che stiamo vivendo solleva in modo molto netto questa situazione e lo fa anche perché reagisce contemporaneamente toccando la sfera privata nel modo più intimo: la salute, e la sfera pubblica nel modo più forte, che è l’intervento dello Stato a tutela della salute e della sopravvivenza materiale delle persone. Non escluderei che a un certo punto finalmente ci fosse una fase in cui si possa ragionare e discutere non in termini necessariamente ideologici ma più generali. In questo ambito anch’io sento la mancanza di una riflessione e di una teorizzazione, ma la sento perché appartengo a una certa generazione. Altre persone si sono formate diversamente e vedono, per esempio, nella sfida ambientale un argomento, anche se privo di una teorizzazione. Penso invece che una teoria dello sviluppo dei rapporti economici, se vuoi anche di scuola marxista, ci sia, anche se molto limitata, che non lo voglio sostenere di per sé, che osservo semplicemente come fenomeno. Dopodiché anche io sento quest’assenza di discussione e in alcune circostanze ho provato a provocarla nel dibattito pubblico: ricordo la discussione sul biglietto di ingresso del Pantheon, per esempio, che era una straordinaria occasione per discutere sulla funzione del patrimonio pubblico, se strumento funzionale all’attrattività turistica e quindi a un certo ciclo economico, oppure elemento fondamentale alla costruzione di comunità. Noi stiamo lavorando a un progetto che per adesso non ha visibilità, ma spero ce l’abbia in futuro. Abbiamo avviato un percorso di confronto in seno all’organizzazione mondiale dei comuni e dei governi locali che ha una commissione cultura, di cui sono il vicepresidente, che ragiona da tempo sul ruolo che la vita culturale ha nella teorizzazione della sostenibilità. Noi abbiamo spinto molto per l’introduzione di un livello aggiuntivo, cioè delle implicazioni che portano all’attuazione del predicato del già citato articolo 27 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo che recita: «ciascuno ha il diritto di partecipare liberamente alla vita culturale della propria comunità, di godere dell’arte e beneficiare dei progressi della scienza». Ognuna di queste parole ha delle implicazioni molto profonde se la consideri da un punto di vista pratico. Ciascuno vuol dire chiunque, liberamente vuol dire che come dice la nostra Costituzione all’articolo 3, che la Repubblica, e nel caso la città, rimuove gli ostacoli all’esercizio di quella libertà, e così via discorrendo. Partendo da questo, noi abbiamo cominciato a lavorare alla formazione di una specie di carta di questo diritto fondamentale nello sviluppo di una società sostenibile che sarebbe dovuta approdare in una discussione internazionale alla fine di maggio.

 

V.V.: La politica culturale a Roma negli ultimi dieci anni, prima del tuo assessorato, ha espresso una tendenza all’accentramento: abbiamo assistito a una scomparsa progressiva di tutti i teatri off, dall’Orologio al Rialto Sant’Ambrogio. Per problemi di sicurezza e altre questioni normative il circuito dei luoghi dove si faceva musica, cinema, che costituiva una rete di autonomie culturali, di pensiero, non c’è più. Ci troviamo invece di fronte a un accentramento nelle mani di poche istituzioni che è in contraddizione con le istanze di cui parlavi prima. Quale strategia culturale stai mettendo in campo per, non dico ribaltare questa situazione, ma alimentare una pluralità di voci decentrate nel territorio e coordinate su un pensiero e un dibattito culturale? Prendendo le mosse dalla Dichiarazione Internazionale dei Diritti dell’Uomo, si riesce a riportare questa tensione etica della cultura in una città come Roma con le sue problematiche politiche, amministrative, etc., etc.?

L.B.: Intanto ritengo ci sia una cesura netta tra l’esperienza che abbiamo fatto in questi tre anni e le precedenti, e la cesura netta sta nel considerare la formazione di capitale sociale e la formazione di competenze culturali. Per competenze culturali intendo strumenti per interpretare la realtà nel modo più autonomo possibile, rispetto a una fase in cui si è fortemente spinto sulla vita culturale come un insieme di beni e servizi del tempo libero. C’è uno spostamento di priorità molto netto, dopodichè ci sono alcune condizioni concrete. Nel caso di Roma c’è stata una fase di fortissima espansione dell’intervento pubblico locale, la promozione della vita culturale contemporanea è quasi una competenza esclusiva degli enti locali; lo Stato ha istituito il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e poi grandi strumenti a supporto dell’audiovisivo e in parte dello spettacolo dal vivo delle grandi istituzioni. Fino al 2007 c’è stato un percorso di espansione della spesa pubblica, una espansione delle risorse a disposizione dei settori culturali che si è concretizzato in un aumento delle istituzioni culturali partecipate, in un aumento della spesa e in un utilizzo abbastanza diffuso del patrimonio immobiliare pubblico per albergare o dare spazio a soggetti, associativi che facevano una autonoma funzione sussidiaria dello Stato, cioè vita culturale pubblica accessibile etc., etc…
Due cose sono cambiate rispetto ad allora, uno è che se guardi i bilanci della cultura del Comune di Roma negli anni precedenti, vedrai che non solo il volume della spesa era maggiore (e segnalo che per la prima volta nell’arco di dieci anni abbiamo invertito la tendenza e abbiamo cominciato ad aumentare l’erogazione di soldi per la cultura), ma la percentuale di risorse che veniva trasferita alle istituzioni culturali controllate rappresentava il 60-65% dei fondi, il che vuol dire, che l’altra parte dei fondi veniva messa in gioco con una pluralità di strumenti, con motivazioni diverse, talvolta di tipo consociativo, di promozione. Secondo elemento è che è esploso il problema della legittimità della concessione d’uso di patrimonio pubblico a soggetti privati di tipo associativo. Questo, in principio, era destinato solo alle abitazioni, ma poi si è esteso e la Corte dei Conti in particolare si è accanita nei confronti delle concessioni fatte per soggetti senza scopo di lucro.
Siamo ancora dentro a questa situazione, abbiamo cercato di contenere l’effetto – che sarebbe potuto essere ancora più grave, soprattutto durante la fase in cui era Ministro degli interni Matteo Salvini. Nel corso degli anni, le concessioni che sono state fatte, al di là della legittimazione del percorso che ha portato all’aggiudicazione da parte dell’associazione secondo le norme dell’epoca, non si sono tradotte in atti di concessione perfezionati: un esempio è la vicenda dell’Angelo Mai, che ha avuto con un’ordinanza del sindaco, la possibilità di utilizzare quello spazio. Ma il Comune di Roma non ha mai fatto una concessione formale, pertanto non è mai stato richiesto un canone, né da parte loro è stato richiesto al Comune di rilasciare la concessione e applicare il canone. Questa situazione vale per soggetti che vanno dall’Angelo Mai all’Accademia Filarmonica.
Le concessioni sono scadute e il Comune non le ha rinnovate, perché non ha rinnovato le norme di assegnazione e pertanto non si è sentito né di mettere in discussione la situazione preesistente né di avviare dei processi che gli consentisse di risanare: questo è accaduto all’epoca di Alemanno sindaco.
La situazione di oggi è che l’uso del patrimonio pubblico indisponibile, cioè che non si può vendere, risorsa fondamentale per favorire quella sussidiarietà di cui parli, cioè l’autorganizzazione sul territorio, è totalmente ferma, anzi la battaglia in questi anni è una battaglia di difesa, per evitare il rientro dentro una pienezza di correttezza amministrativa che abbia come effetto lo svuotamento totale dell’esercizio di funzione sussidiaria sul territorio. Finalmente adesso forse sta emergendo un regolamento di gestione del patrimonio da parte dell’assemblea capitolina, che vorrebbe consentire da una parte di avere delle norme transitorie per gestire il passaggio dal regime confusionario preesistente a un regime più conforme alle norme, garantendo una fase di transizione. Un ente prestigioso come l’Accademia Filarmonica Romana si trova contestata dalla Corte dei Conti che chiede un milione e mezzo di euro di arretrati e la riacquisizione del bene. Ci sono centinaia di procedimenti avviati da un singolo procuratore della Corte dei Conti che hanno questa natura.
Quindi la difficoltà di una politica pubblica nel settore culturale e non solo in generale in rapporto con le forme associative privatistiche, ma no-profit, diciamo un terzo settore piccolo, è proprio che gli strumenti principali che si avevano – e cioè risorse finanziarie, e ancor più l’utilizzo e concessione degli spazi – sono rimasti totalmente bloccati.
Ti aspetteresti che i luoghi gestiti dal pubblico siano a norma e invece ci sono delle situazioni paradossali, come una gran parte delle scuole di Roma che sono state costruite su esproprio di terreni privati che non si sono mai completati. Nel comune di Roma ci sono ordini di esproprio non perfezionati risalenti alle Olimpiadi del 1960… un sindaco fa l’ordinanza per la concessione del bene e poi però non c’è la firma del contratto, e se non c’è il contratto non ci sono gli obblighi giuridici reciproci. La stretta c’è stata dopo l’esplosione di mafia capitale…

 

V.V.: Il percorso che porterebbe a rendere esercitabile il diritto di tutti di produrre e fruire cultura richiede delle modalità da reinventare per stabilire adeguate interconnessioni fra i diversi soggetti plurali, al centro, nelle periferie, pubblici, privati.

L.B.: Uno dei problemi su cui abbiamo lavorato, delle sfide, e in alcuni casi con esito almeno parziale, è stato quello di spingere le istituzioni culturali – Teatro di Roma, Romaeuropa Festival, Teatro dell’Opera, Palazzo delle Esposizioni, la Fondazione Cinema, la Film Commission,…etc. – che assorbono il 93% del bilancio comunale, a uscire da se stesse, in quanto la loro funzione primaria non è quella di fare cose per i loro clienti. Abbiamo a tale scopo, messo in gioco in modo strutturale la rete delle Biblioteche civiche, perché è l’unico presidio culturale pubblico diffuso sul territorio e quest’azione ha prodotto degli effetti notevoli. Cito solo un dato quantitativo, che però è emblematico: il Festival della Scienza che si faceva all’Auditorium con 150 appuntamenti in una settimana, è diventato una stagione di promozione della cultura scientifica con 1000 appuntamenti di cui 800 sono in biblioteche civiche, e c’è un bando di Roma Capitale che si chiama Eureka per cui gli operatori culturali inventano progetti che si svolgono in luoghi, diciamo prevalentemente pubblici, a ingresso libero. Si è trattato di ridestinare una spesa che era di fatto vincolata, in modo da produrre un effetto espansivo. La riconnessione del sistema degli ex teatri di cintura all’interno della ricostruzione di un polo di teatro pubblico corrisponde a questa logica, e il tentativo è quello di mantenere una autonomia culturale nei teatri, quindi una dimensione autonoma forte e dall’altra parte però costruire un sistema di rete che non c’è: qui sei diciamo nel pubblico pubblico.

 

V.V.: A che cosa dobbiamo resistere in questo presente, che cosa dobbiamo combattere e cosa dobbiamo costruire?

L.B.: Sono più tentato a rispondere a quello che dobbiamo tentare, piuttosto che a quello a cui dobbiamo resistere, in quanto la resistenza c’è ed è tangibile, più avanti dovremo resistere al bisogno di metterci in corsa singolarmente. Quello che dobbiamo tentare è di trovare una strada in cui le sfide che questa situazione renderà assolutamente tangibili, siano sfide che riguardino la messa in discussione del modello di sviluppo e di organizzazione della vita economica e pubblica che abbiamo costruito negli ultimi trent’anni. Ormai oggi anche economisti importanti si esprimono in merito. L’idea liberista – cui anche la cultura riformista ha largamente aderito – ovvero che il raggiungimento del livello di benessere possa essere conseguito esclusivamente attraverso l’aumento del consumo privato e quindi della capacità singola delle persone di consumare bene e servizi, mi pare clamorosamente smentito dal 2008, anche se non ha avuto l’effetto che poteva avere e che questa pandemia, immagino, possa avere. Non penso che ci sia lo spazio per un recupero, si tratta di reinventare un modello di sviluppo diverso. Però bisognerebbe tentare di cominciare a parlarne e a parlarne in modo non strumentale, perché il rischio in questa situazione è che tutto venga strumentalizzato per un vantaggio politico a breve.

 

V.V.: Rientra nel progetto del TBQ costruire un luogo e delle occasioni di riflessione e discussione su questi temi.

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