Conversazione con Roberto Morassut di Valentina Valentini

Per una lettura complessa delle periferie
(nella disarticolazione del sistema urbano)

Valentina Valentini: A Roma ci sono diversi tipi di borgata, quelle costruite e progettate durante il fascismo (Centocelle, Gordiani, Pietralata, Quarticciolo, Villaggio Breda, etc.), quelle nate spontaneamente subito dopo la guerra, costruite dai contadini che abbandonavano le campagne e arrivavano a Roma dalle Marche, dall’Abruzzo, dal Sud e incominciavano a costruire le “casette della domenica” (Castelverde, Borghesiana). Nel tuo libro, Le borgate e il dopoguerra: politica, società, ideologia alle radici della Roma di oggi (Ponte Sisto, Roma 2018), una storia che si nutre di fonti visive, letterarie, filmiche, si legge: «Il dibattito sull’abbandono e la povertà delle borgate romane, che si sviluppò intensamente a partire soprattutto dal 1950, introdusse un campo di ricerca nuovo per l’epoca, divenuto con il tempo di scuola e convenzionale ed è rimasto cristallizzato come un elemento identitario, rigido che, per certi versi, ostacola ancora oggi una più attenta lettura della dimensione della periferia urbana, delle contraddizioni tra ricchezza materiale e povertà culturale di certi aspetti della periferia di oggi!» (p. 13). Puoi spiegare meglio questa contraddizione fra ricchezza materiale e povertà culturale?

Roberto Morassut: Il periodo che coincide con gli anni della prima giunta Rebecchini, dal ’47 al ’52, erano gli anni della ricostruzione, in una Roma impoverita dalla guerra che scopriva che era nata una periferia fino ad allora sconosciuta. Nel senso che esisteva da tempo, ma era stata tenuta nascosta dal regime fascista che aveva costruito una sua idea di città di cui il tratto dominante era la monumentalità del centro storico, la città imperiale. Per questa ragione aveva spostato in periferia interi nuclei familiari, operai e artigiani che vivevano nel centro storico. Le borgate create dal fascismo erano sperse nelle campagne ed erano anche dei luoghi controllabili per come erano costruite, ma distanti dalla città. Quindi questa dimensione esisteva, ma era una dimensione negletta che venne a galla esplosivamente con le lotte sociali, con le lotte popolari, con alcuni fatti di cronaca apparsi sulla stampa che incominciò a squadernare questa nuova dimensione. Sicuramente era una Roma povera per un semplice motivo, come ricorda Italo Insolera nel suo Roma moderna (Einaudi, 1962) perché questi ceti, popolari e produttivi che erano stati portati in periferia, avevano perduto il rapporto con il loro piccolo circuito economico dei rioni del centro, trasferiti in zone dove non esisteva un’economia, non esisteva nulla. A questa povertà assoluta si aggiunse la povertà dei nuclei familiari degli sfollati provenienti dalla provincia, creando un melting-pot particolare di romani sradicati e di famiglie di immigrati dalla provincia e dalle altre regioni d’Italia che si sommavano in un quadro di estrema povertà e abbandono, mancando anche i servizi. Quindi in quella Roma lì, le cui caratteristiche si estendono almeno fino agli anni ’60, la dicotomia tra borghesia e popolo, tra poveri e ceti più avanzati e più ricchi era abbastanza visibile. Chiaramente si è costruita una narrazione anche letteraria di questa Roma, che io chiamo della periferia dolente. Ma oggi quando sento parlare di periferia abbandonata, penso che non sia più la chiave giusta, perché è evidente che le periferie esprimono notevolissimi problemi, quale la povertà materiale, che non è scomparsa, però il paradigma è notevolmente mutato negli ultimi venti, trent’anni e molto accelerato negli ultimi dieci, perché è mutata la forma urbana. Stiamo vivendo il quadro di uno spappolamento dell’organismo urbano, di una disarticolazione che interessa tutta la città con le sue componenti, compreso il centro storico e i quartieri consolidati, che erano quartieri piccolo borghesi di ceto medio legato al lavoro pubblico e che oggi vivono lacerazioni territoriali, abbandoni di patrimonio pubblico e di patrimonio privato, degrado dello spazio pubblico, impoverimento dei ceti sociali, soprattutto le fasce più anziane. Anche in periferia riscontriamo un fenomeno più complesso di un tempo: l’assenza di servizi, il dominio delle comunicazioni di massa verticali, il diradamento delle occasioni di aggregazioni, comporta una povertà culturale che in alcuni casi si affianca a una ricchezza materiale, spesso costruita con le più diverse attività, anche non regolari. Pensiamo per esempio al patrimonio immobiliare costruito con le varie fasi dei cicli edilizi abusivi che all’inizio erano forme di legittimazione proletaria, delle abitazioni costruite abusivamente, poi sono diventate, in molti casi, speculazioni. Quindi oggi, quando parliamo della periferia bisogna avere una visione più articolata e sapere anche che gran parte della vitalità – che Roma ne ha ancora tanta, nonostante la crisi -, imprenditoriale dei soggetti che fanno impresa, è concentrata in periferia. Cioè è lì che c’è l’impresa, è lì che c’è l’economia, è lì che c’è la creazione di prodotto interno lordo, anche con le enormi difficoltà di una città che paga il prezzo di un mercato creditizio molto basso e depresso, della sconnessione dei vari sistemi urbani, di una esigua infrastrutturazione. Tutti questi elementi esistono, ciononostante ci debbono condurre a una lettura più complessa che evidenzi non solo le contraddizioni ma anche le potenzialità di una periferia che non è solo abbandono.

 

V.V.: In sintesi, rispetto a quello che hai detto, nel nuovo millennio, abbiamo più centri e più periferie? La mancanza di servizi è un dato costante ma la periferia ha una vitalità culturale che abbiamo verificato anche nei mesi di lockdown: il centro spopolato senza turisti e le periferie vivaci.

R.M.: Questo è un fenomeno tipico delle città globali che viene definito con un termine un po’ ostico come gentrificazione, cioè una dinamica in cui si perde il senso di una città organizzata per fasce sociali, per zone produttive e che ha delle sue identità ben determinate, ammesso che a Roma questo sia stato vero anche in passato. Non essendo stata Roma una città operaia, questa organizzazione spaziale e produttiva è stata sempre molto difficile da identificare, tanto più oggi che assistiamo a una lacerazione e a una disarticolazione del sistema urbano che rende più difficile la percezione delle identità specifiche. In questa che chiamiamo periferia, che è fatta di tessuti urbanistici e realtà molto diverse, percepiamo che indubbiamente esiste una vitalità culturale, perché la creatività produttiva economica è anche una vitalità culturale, perché il tessuto associativo, culturale, le attività che sono legate a forme sussidiare di azione sociale propositiva sono molto dense e ricche in periferia. In questo riscontro una certa continuità con il passato più antico anche dell’immediato dopoguerra, perché una delle caratteristiche delle periferie di allora è stato quella di reagire alla condizione di abbandono e creare un tessuto di realtà associative anche intorno ai partiti che erano più vitali, radicati e presenti rispetto a oggi, che poi sono state le leve per il riscatto e le lotte sociali. Così come racconto nel libro in quegli anni nascono le “consulte popolari” che erano create dai cittadini anche al di fuori dei partiti, per fare delle azioni semplici, cioè portare le coperte a chi non le aveva, preparare le minestre a chi non aveva da mangiare; per fare i “quaderni di rivendicazione” cioè degli elenchi di tutto ciò di cui aveva bisogno il quartiere e si organizzava il conflitto e le richieste verso le Istituzioni, con gli scioperi alla rovescia cioè realizzando direttamente le opere alle quali il Comune avrebbe dovuto provvedere. È in quel momento che si crea questo tessuto che è una reazione a una condizione che poi nel tempo si è articolata e oggi noi assistiamo a un panorama ricchissimo e variopinto che è un tratto di quella vitalità.

 

V.V.: Nella postfazione al tuo libro, Le borgate e il dopoguerra…, Walter Veltroni sostiene che durante il suo mandato come sindaco, si sono creati nelle periferie, incubatori di imprese e posti di lavoro, l’Atlante delle periferie, i contratti di quartiere… Che ne è stato di questi progetti e iniziative (oltre che del nuovo piano regolatore…)?

R.M.: Non intendo fare un discorso che può sembrare di parte, nel senso tutto bene prima e tutto male dopo: quando ho partecipato come Assessore all’Urbanistica del Comune di Roma (sindaco Veltroni) non mancavano i problemi, ma si aveva una consapevolezza dei limiti dell’azione amministrativa. Dopo il 2008, si è verificato uno spartiacque tra un momento in cui l’amministrazione si è spesa nella direzione di un tentativo di unificazione della città, di promozione della sua modernizzazione e successivamente di un degrado della struttura amministrativa comunale, che ha perso la continuità amministrativa, e questo è molto grave perché se c’è un progetto, il progetto deve andare avanti, magari si corregge ma non si interrompe. Invece da noi c’è stata una cesura, una disarticolazione dell’amministrazione, e anche un abbassamento della classe dirigente. C’è da dire che il tema della Capitale è entrato a livello nazionale in un momento critico e sta vivendo una lunga stagione di disinteresse da parte della politica nazionale, e tutto questo ha contribuito a una disgregazione di memoria e anche di processi amministrativi nei quali rientrano anche l’atlante delle periferie, uno strumento di albo all’interno del quale ritrovare le priorità e le direttrici fondamentali dell’azione sulle periferie, senza avere la presunzione di riuscire ad affrontare tutto, sapendo però quale era il raggio delle questioni da affrontare nel tempo, anche con programmi pluriennali, avendo una direzione di marcia.

 

V.V.: Ancora negli anni ’70 chi viveva in borgata si ritrovò di fatto segregato, costretto dalle distanze (e dagli autobus che non passavano) a “una lunare sedentarietà”, come scrive Valerio Mattioli, nel suo libro, Remoria. La città invertita (Minimum Fax 2019): “il centro non era nessuna fonte cui abbeverarsi: era un posto da consumare o meglio ancora da depredare, perché è solo attraverso il saccheggio – reale o simbolico che sia – che il coatto si relaziona al paradiso delle merci” (p. 131). La borgatosfera come la chiama Mattioli, è una realtà altra? Pensiamo all’incendio – reiterato – della libreria La Pecora elettrica di Centocelle. Le strutture culturali come il sistema delle Biblioteche di Roma, così come la rete dei Teatri in Comune tra Ostia, Tor Bella Monaca, Quarticciolo, sono degli avamposti importanti, ma in un Municipio di oltre duecentomila abitanti, una biblioteca comunale riesce a fare poco.

R.M.: Centocelle rappresenta un luogo di fortissime contraddizioni e contrapposizioni e di radicalismi politici che sono sempre esistiti. Se si ripercorre la sua storia, dalla nascita fino a oggi, scopri che è un luogo dove le contrapposizioni radicali sono una caratteristica da attribuire a un certo tipo di conformazione di questo quartiere che era stato concepito come una sorta di città giardino, un luogo di borgata rurale, che poi è diventato tutt’altro, perché per scelte urbanistiche nel corso della storia si sono concentrati ceti sociali particolari. Centocelle è sempre stato un quartiere difficile. In generale voglio dire che nelle periferie esiste una vitalità democratica e associativa, basti pensare alla complessa esperienza sociale e culturale di Forte Prenestino, al Borgo Ragazzi Don Bosco che è una realtà salesiana che ha sempre svolto una funzione importantissima di integrazione della gioventù abbandonata. Le periferie vivono oggi il contrasto tra questa reattività, questa voglia di manifestare un’identità che per fortuna non si è spenta e che si manifesta in mille modi, e la conseguenza di una globalizzazione che inevitabilmente appiattisce e abbassa i termini della complessità, rende gli individui più soli e più omologati. Sono gli effetti di lungo corso che Pasolini aveva già intuito negli anni ’70 quando faceva i suoi ragionamenti sulla televisione, sulla massificazione culturale massmediologica. Oggi tutto questo sfocia anche in situazioni di scontro, di accanimento e contrapposizione che sono più fertili in quartieri come Centocelle, un quartiere che aveva una colonna romana delle Brigate Rosse fortissima, un quartiere in cui l’estrema destra era presente, pensiamo alla vicenda dell’uccisione da parte della polizia nel 1979 del liceale di destra Alberto Giacquinto1. A Centocelle il PC negli anni del dopoguerra faticò enormemente a far passare la linea di Togliatti, della promozione democratica della via parlamentare, perché lì c’erano i comunisti che si contrapponevano al PC perché volevano fare subito la rivoluzione. Centocelle ha un universo politico e spirituale tutto particolare. La vicenda de La Pecora Elettrica ha qualche cosa a che fare con questo, cioè è un’esperienza legata a un certo tipo di associazionismo giovanile.

 

V.V.: Nel tuo libro scrivi delle alleanze strettissime negli anni Cinquanta tra Vaticano, speculazione edilizia e proprietà fondiaria, vitali fino agli anni ’70. A queste alleanze reazionarie, oggi quali poteri si sono sostituiti?

R.M.: Dopo la guerra esisteva uno strutturale collegamento tra la proprietà fondiaria e la finanza vaticana, leggibile soprattutto in un dato, nel fatto che nel 1929 con i Patti Lateranensi e quindi con gli allegati finanziari di quegli accordi, il Vaticano si trovò a gestire una massa enorme di risorse economiche, compresi titoli di stato versati dallo Stato Italiano come riconoscimento della chiusura dei patti. Si trovò a investire queste risorse comprando la Società Generale Immobiliare che era la Società Immobiliare di Torino scesa a Roma nel 1860 che aveva una grande capacità industriale ma non aveva i terreni. Il Vaticano quindi mise insieme la proprietà di “manomorta”, le destinazioni urbanistiche che gli erano state riconosciute con il piano regolatore ’31 e una grande società di appalti e di opere, creando un gruppo fortissimo che guidò lo sviluppo edilizio di Roma per trent’anni fino agli anni ’70-80. Poi questo sistema è entrato in crisi cominciando a creare debito e il problema del debito di Roma e delle conseguenze che ha avuto sul sistema finanziario e amministrativo, sono ravvisabili in quella storia lì. Oggi ovviamente la situazione è diversa, questa componente non ha più la stessa forza di prima, la stessa capacità aggregativa e gerarchica. A questa si sono sostituite altre centrali, in primo luogo finanziarie, anche legate al cambio di paradigma introdotto dalla globalizzazione. Prendiamo appunto il tema dello sviluppo edilizio, oggi il problema non sono più i costruttori che svolgono un ruolo in un certo senso secondario, sono i grandi fondi immobiliari internazionali multinazionali che agiscono sulla città con una velocità impressionante, con una grande capacità finanziaria che fanno anche operazione di demolizione, ricostruzione, rigenerazione come si chiama oggi, rispetto ai quali alla città non resta nulla, perché il grande plusvalore che si determina da queste operazione di rinnovo urbano viene incamerato quasi esclusivamente da questi fondi che hanno delle proprietà miste internazionali. Siamo di fronte alla forza della finanza globalizzata che agisce sulla trasformazione urbana. Un secondo aspetto, da non trascurare, è la criminalità: oggi il movimento di affari che ruota attorno alle attività criminali di ogni tipo, dai rifiuti, agli stupefacenti, è un agente delle gerarchie sociali che codifica e classifica i rapporti di classe. Questi due esempi per dire che la città di oggi non è più solo finanza-Vaticano, quindi una dimensione italica, è una società aperta che fa i conti con le grandi economie di scala mondiale. Da qui la mia insistenza sulla necessità di una riforma dell’ordinamento amministrativo, perché alla forza economica di questi soggetti non si può contrapporre un Comune che ha un ordinamento vecchio di decine e decine di anni. C’è bisogno di una struttura forte che concepisca la dimensione metropolitana, la organizzi, abbia la forza di dettare politiche pubbliche: questa è la grande scommessa delle metropoli in generale e in particolare di Roma, perché è qualche cosa di più di una metropoli. Roma è una di quelle parole che [quando la pronunci] si capisce immediatamente di cosa si sta parlando in ogni parte del mondo, dalle popolazioni indigene dell’Australia al Polo Nord. Questo brand per Roma è una grande opportunità ma anche un grande problema perché richiede un’organizzazione.

 

V.V.: L’attuale Vicesindaco e Assessore alla Crescita Culturale del Comune di Roma, Luca Bergamo, propone di realizzare un Museo delle periferie a Tor Bella Monaca…

R.M.: Mi sembra un’espressione impegnativa, Museo delle periferie, però non conosco i dettagli di questa proposta. L’unica cosa che non si dovrebbe fare è quella di musealizzare una condizione o costruire i termini di una retorica, perché la periferia è città. Quando noi parliamo di periferia parliamo comunque della città, delle contraddizioni, dei suoi problemi, quindi più che cristallizzare delle situazioni, bisognerebbe impegnarsi per modificarle radicalmente sapendo peraltro che Tor Bella Monaca, con tutti i suoi problemi, è un bel quartiere da un punto di vista urbanistico spaziale perché è un quartiere concepito secondo criteri moderni e avanzati. La situazione reale, cioè la traduzione edilizia di questi criteri non è stata soddisfacente, anche perché si tratta di edilizia degli anni ’70 costruita con determinati criteri, che oggi affronta un grande degrado in un quartiere che si è popolato secondo criteri massivi, che ha centri di promozione culturale, pensiamo al Teatro di Tor Bella Monaca, che venne realizzato negli anni di Veltroni; un posto di grandissima forza anche da un punto di vista culturale, ma ovviamente anche di enormi problemi.

 

V.V.: Dal tuo libro si evince che la questione borgate e periferie a Roma viene assunta come battaglia politica in momenti di forte presenza e impegno dei partiti di sinistra, dei sindacati, dell’associazionismo, tant’è che Centocelle, Gordiani, Quarticciolo, Pietralata, Torpignattara, Primavalle si riconoscevano nei partiti di sinistra e nel PCI. Nelle elezioni comunali del 2016 questo dato si è ribaltato. Si progettano iniziative per i nuovi immigrati che non provengono più dal Sud e dalle campagne? Il popolo degli “invisibili” sbarcati sulle nostre coste dall’Africa e dal Medioriente, a differenza degli anni ’50, quando il dibattito sui nuovi immigrati era assunto come problema politico e sociale, a livello di coscienza amministrativa e politica non viene presa in carico.

R.M.: Intanto è tanta gente che lavora e sono invisibili anche nel lavoro, sono fette di popolazione che esistono. Anche negli anni ’50 c’era un problema di invisibili, cioè c’era un sacco di gente che veniva dalle province del Mezzogiorno che non era censita, alla vigilia del giubileo del 1950 non si sapeva quanto era la popolazione di Roma. Tant’è vero che a un certo punto si sviluppa un dibattito proprio in consiglio comunale e in città, interviene una personalità di assoluto valore democratico com’era Don Sturzo, che fa una proposta che oggi giudicheremmo addirittura razzista, ovvero di dare la cittadinanza solo a quelli che stanno nel centro storico. Lo stesso è oggi dove la dimensione demografica e anche la composizione delle fasce degli immigrati è molto più ampia e articolata e differenziata, è una componente dell’identità della periferia. Se si va in certi quartieri è evidente, pensiamo a Torpignattara dove la stratificazione sociale e culturale è molto forte. Questa organizzazione è la sfida della modernità, va analizzata in chiave demografica, va costruita una narrazione, una politica che consenta di fare di tutto questo non un limite, non un problema, non un degrado, ma una grandissima ricchezza, perché i popoli più forti e avanzati, più creativi da un punto di vista intellettuale, sono i popoli misti, i popoli meticci.

 

V.V.: Facciamone una battaglia, “noi ci siamo”, riprendendo il titolo di questo numero di TBQvoices.

 

un ringraziamento a Laura Ricci per la collaborazione


1Avvenne a Centocelle durante una manifestazione per commemorare il primo anniversario della strage dei militanti del Movimento sociale di Acca Larenzia.

Roberto Morassut. Sottosegretario di Stato al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare.
Politico e deputato parlamentare, eletto nel 2008 nella Circoscrizione Lazio 1 riconfermato nel 2013 e nel 2018. In Parlamento si occupa di riforma della legislazione urbanistica e del sistema previdenziale.
È stato membro dell’VIII Commissione (Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici) alla Camera dei Deputati e capogruppo in Commissione Bicamerale di controllo sull’attività degli enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza sociale.
Nel maggio del 2014, la Camera dei Deputati lo ha nominato nella delegazione del Parlamento italiano – composta di 18 membri – che fa parte dell’Assemblea Parlamentare NATO (Commissione Scienza e Tecnologia).
Nel mese di aprile del 2016 viene nominato Vicepresidente del GSM (gruppo speciale sul Mediterraneo) dell’Assemblea parlamentare della NATO.
Ha contribuito alla modifica e alla riforma della normativa edilizia nazionale sul tema della contribuzione per la corresponsione ai Comuni di oneri di urbanizzazione, stabilendo – con una norma confermata da una sentenza della Corte costituzionale – che il valore di tali oneri deve essere calcolato in base ad una equa ripartizione tra Comuni e soggetti privati del valore di rendita generato dalle trasformazioni urbanistiche ed edilizie, con un maggiore vantaggio ed interesse pubblico.
Ha, inoltre, presentato una proposta di legge di riforma costituzionale per ridurre il numero delle Regioni italiane da 20 a 12 attribuendo al territorio della ex Provincia di Roma il rango di Regione-Capitale, superando la forma ordinaria del Comune.
Nel mese di novembre 2016 è eletto Vicepresidente della Commissione Parlamentare di inchiesta sul degrado delle periferie italiane fino al marzo 2018.
Il 13 settembre 2019 è nominato Sottosegretario di Stato al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare del secondo governo Conte.
In qualità di Assessore all’urbanistica della Giunta Veltroni (2001/2008) ha guidato l’approvazione in Consiglio Comunale del Nuovo Piano Regolatore Generale di Roma e, nel 2005, durante il suo incarico di assessore, viene nominato Commissario Governativo per il Programma di riqualificazione dell’ambito urbano di Viale Giustiniano Imperatore a Roma, unico programma di demolizione e ricostruzione di fabbricati intensivi ad uso civile realizzato fino ad ora in Italia. Ha coordinato la realizzazione di numerosi interventi ed opere pubbliche.
Fra le sue numerose pubblicazioni:
Malaroma. Dal modello Roma al fallimento di Alemanno. 2012, Aliberti Editore.
Roma Capitale 2.0, la nuova questione romana. Un riformismo civico per la Capitale, 2014 pubblica con Imprimatur editore il libro.
Il pozzo delle nebbie. Il caso Bracci. Un delitto a Primavalle nell’Anno Santo 1950, Ponte Sisto Editore 2014
Roma senza capitale. La crisi del Campidoglio e il bisogno di una riscossa civica, libro intervista con Pietro Spataro, Ponte Sisto Editore 2015.
Numero 9. Giuliano Taccola, la punta spezzata. Roma e la Roma negli anni ’60, Palombi editore 20016.
Le borgate e il dopoguerra. Politica, società, ideologia alle radici della Roma di oggi, Ponte Sisto Editore 2018.
Democratici. Un movimento per l’Europa contro le diseguaglianze, Ponte Sisto Editore, 2018.

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