Quando abbiamo paura, noi ci difendiamo

Chiara Bersani e Marta Montanini

Siamo nate a 11 mesi di distanza, da quel giorno siamo in due. Abbiamo costruito tutti i nostri paesaggi sovrapponendo veloci i pensieri, è l’unico modo che conosciamo per leggere il mondo. Arriverà il tempo della sintesi e dell’ordine, ma sarà tra molto. Per adesso questo è tutto ciò che abbiamo. A noi gente di Po lo spiegano fin da bambine: se il fiume si gonfia bisogna lasciargli spazio, farlo uscire in golena, è la pressione sugli argini ciò che va evitato. Adesso è la stessa cosa. Permettere che queste parole prendano forma è il modo che conosciamo per assicurarci che il resto non vada perduto.

Io so già come si vive chiusi in casa e cosa vuol dire non avere lavoro.
So cosa si prova quando non si respira che poi le labbra diventano viola, so cosa vuol dire sentirsi in pericolo. Guardo gli altri e certe volte penso – Ma credevate veramente che non sareste morti mai?

Ti leggo. Noi ci siamo lette ogni giorno, tutti i giorni, da molto tempo. Non ci serviva nessun rallentamento, nessuno stare a guardare. Ci vegliamo da sempre. Rimaniamo sveglie.

In questo illeggibile presente sto ricominciando a far confusione tra realtà e fantasmi.
Esco in terrazza e per un attimo il sole mi ricorda che ho un corpo e che questo corpo vive un presente e tutto è materiale e specifico, ma poi arriva il vento e mi torna in mente la terrazza di Marina di Massa, le nostre estati di bambine, il divano letto davanti alla televisione, il pontile.
Mi confondo.
Sono là, un altro tempo e un altro spazio.

E adesso chi glielo dice a quella Chiara bambina che ci siamo arenate? Che dopo tutta la fatica fatta per buttarsi nel mondo, per aprire sentieri nella selva, ora siamo immobilizzate e forse scalpiteremo in casa più a lungo dei sani e quando usciremo chissà quanti zoccoli avranno confuso i percorsi. E noi avremo ancora la forza per rifarci spazio?

Sentire forte la tua paura, mi ha colto di sorpresa. Pensavo che con questo mondo tu avessi già negoziato il negoziabile, cioè tutto. Per anni ti ho guardata aprire tutte le porte che sceglievi. Una a una. Con sforzo. Con trepidazione. Non ho mai pensato che la tua appropriazione magistrale fosse una specie di concessione reversibile. Infatti non lo è.
A furia di tattiche, abbiamo imparato la cospirazione e la rabbia. Saltavamo le caselle, rompevamo le fila. Ci siamo costruite delle altre chiavi. Queste chiavi sono nostre. Non le restituiremo.

L’altro giorno al telefono hai detto: “Mi fa ridere che ora il disabile diventi improvvisamente esperto di isolamento e di convivenza con la malattia. E poi è assurda questa medicalizzazione della quarantena, come se fossimo tutti malati perché dobbiamo stare in casa.”

Pensavo: quando io ero malata, sdraiata su un letto o su un divano, il fuori esisteva perché lo abitavate voi. Le mie convalescenze erano scandite da incursioni del mondo nella mia camera e tu, le nostre amiche, mio fratello, papà e mamma…tutti voi eravate messaggeri. Tu arrivavi con le guance rosse e lentigginose, la treccia e pantaloni d’acetato. Nei ricordi io mi trovavo sempre alla fine di una tua corsa. Portavi quell’energia lì della natura fuori e poi ti mettevi dov’ero io e me ne davi un po’ e il mio cuore iniziava a battere un pochino più forte mentre il tuo rallentava. Se era primavera mamma mi portava i primi fiori, papà apriva le finestre. Se era inverno mio fratello portava un bicchierino di neve, facevamo mini pupazzi casalinghi, li tenevamo in freezer.
Forse di quello avrei potuto considerarmi esperta: leggere il mondo attraverso il corpo degli altri. Viverlo con i loro sudori, i profumi diversi, le pulsazioni, la temperatura delle mani che per scherzo mi toccavano la faccia.

Beviamo da sempre il tè sul tavolo basso. Dal divano abbiamo tracciato le nostre mappe di esplorazione del mondo. Ci siamo scambiate la pelle. Abbiamo accordato il nostro fare esperienza. Abbiamo capito che è la complicità a proteggerci, non il sottrarsi. A questo tavolo, abbiamo invitato tutti.

Di questo modo di disabitare il mondo io non sono esperta. Non lo sei neanche tu. Quando ci chiamiamo io sono nel mio bilocale, tu nella tua casa di ringhiera. Io nel piacentino, tu a Torino. Io vado solo sul terrazzo, tu ogni tanto vai al mercato, ma quando torni sei sempre triste.

La migliore delle nostre intuizioni: cercare tutte le intersezioni possibili, infilarsi lì dentro. Cercare tutti gli appoggi. Lezione numero uno della tua fisioterapia: percepire lo sforzo, sentire i tuoi equilibri riflessi nelle mie articolazioni. E di seguito: farsi visita dovunque. Non essere atterriti dal dolore altrui. Facilitare gli accessi. Prevedere i movimenti impercettibili. Riconoscersi.

Perché si cercano esperti d’isolamento?
Immaginare che qualcuno di diverso da noi conosce già questa situazione ci salva in qualche modo?
E dopo? Chi si ricorderà di loro?
Chi si ricorderà di noi?

Abbiamo l’ossessione di contare gli assenti. Forse perché, da lontane, ci siamo sempre mancate. Sappiamo che essere presenti ha un costo. Tu hai detto molte volte che essere presenti è un privilegio. Io so che la mia presenza non sostituisce i posti vuoti. Non ci fidiamo di chi non aspetta. Non ci fidiamo dei custodi. Non rispondiamo agli appelli. Siamo colpevolmente attratte dalle diserzioni.

Questa volta ce lo domandiamo insieme “Ma credevano veramente che non sarebbero morti mai?”
Perché altrimenti non ci spieghiamo questa paura feroce che non accetta di rivelarsi, che si nasconde dietro una deformata razionalità.
Sdraiata sul letto ti chiedo “serve veramente così poco all’uomo per diventare cannibale?”.

Non avremmo mai voluto un noi e un loro.

È cannibale chi mi dice “capisco il tuo punto di vista ma se non ci sono posti in rianimazione bisogna prendere delle decisioni”. È cannibale chi mi dice “devi metterti nei panni dei dottori che ogni giorno devono scegliere”. È cannibale chi mi dice “non è il momento di essere idealista”.
È cannibale chi lo dice a me fingendo di non vedere il mio corpo e i suoi significati.
Ma se non si è capito che non c’era metafora nel mio ragionare sul corpo politico, ma carne, muscoli e sangue allora io cosa stavo facendo? Credevo veramente di stare scardinando qualcosa e invece forse stavo solamente accettando l’accoglienza da parte dei sani nel loro mondo. Stavo accettando di essere definita da loro, raccontata e romantizzata da sguardi che non conoscevano pericoli, ma non avevo riscritto niente. Pensavo che un esercito compatto si sarebbe schierato accanto a me quando con voce rotta leggevo alla radio le linee guida del SIAARTI su come decidere chi aveva diritto di accedere alla rianimazione in caso di mancanza di posti letto.
E invece, davanti alla paura, il mondo si è parcellizzato. C’è chi è rimasto, chi non ha nemmeno preso in considerazione l’idea di spostarsi, ma io continuo a guardare chi ha fatto un passo di lato dicendomi “devi capire”.

Invece adesso ci stiamo contando.

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